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Una ridicola scusa: tornare nella città da cui è partito tanti anni prima per vendere un insignificante appartamento in un quartiere caotico e popolare, rimasto libero dopo la morte del padre.
Davide è un uomo d'affari cresciuto alla scuola dell'utile e della spietatezza. Scende da un aereo per salire su un altro, non ha amici ma ha avuto molte donne, e ogni suo spostamento è organizzato da un'efficientissima segretaria scozzese. I suoi tempi sono scanditi, i sentimenti azzerati. Tutta la sua vita si è
ispirata all'esempio e al culto di un eroe spregiudicato e ambiguo: Alcibiade, il politico greco maestro di seduzioni e di inganni. Calcolatore, affascinante, un uomo che ha costretto, da sempre, gli storici su due sponde opposte, quelli che lo considerano uno statista brillante ma troppo furbo, quelli per cui è stato un cinico traditore.
Ma perché un uomo come Davide è tornato a farsi inghiottire da una città che sembra completamente all'opposto dei valori, o dei
disvalori, che hanno da sempre orientato le sue scelte? Una città stremata dalla vitalità mortale di barbari la cui violenza poggia sulla debolezza, la cui aggressività è l'esorcismo di un'inferiorità ancestrale, patita nella loro esistenza come in quella dei loro padri.
È Napoli questa città, anche se Sergio De Santis non la nomina mai, come se il solo evocarla esplicitamente avesse il potere nefasto di addolcire i toni, oppure, al contrario, di incanalare il racconto nei binari di un prevedibile pathos o di un altrettanto prevedibile orrore.
E invece questo romanzo, anche se non si nega i suoi quasi doverosi momenti di strazio, risuona aspro, inconciliabile, come lo è la modernità amara che tutti in ogni luogo viviamo, come lo fu l'esilio di un eroe greco troppo immerso nel buio della storia per risplendere della luce accecante del mito. M |